UFC | Articolo a cura di Mimmo Vitale – La storia si ricorda solo dei vincitori e ci mancherebbe altro. Resta quello che è statistica, quello che si è conquistato sottraendolo agli altri e, quando il tempo trasforma i corpi in polvere, ci pensano le gesta compiute a tenere viva la memoria dei grandi.
Tra 50 anni tutto il mondo degli sport da combattimento si ricorderà di Alistair Overeem e nessuno si ricorderà di Walt Harris ma, devo essere onesto, in questi giorni è stata la sua storia a catturare maggiormente la mia attenzione.
Harris, come molti, è arrivato per caso alle MMA, visto che la sua passione era il basket. Poi i mille casi della vita lo avevano portato ad appassionarsi al mondo del combattimento e, dopo anni nelle promotion minori del sud degli Stati Uniti, a lasciare il proprio lavoro (lavorava come corriere per UPS) e a tentare l’avventura UFC. Partecipa al The Ultimate Fighter e perde.
Così come perde non pochi dei successivi match in UFC (6, per l’esattezza).
Tre anni fa Werdum lo finalizza in un minuto. Troppa differenza tecnica, il brasiliano ha troppe frecce al proprio arco. Poi però l’americano ingrana. Vittoria per KO contro Spitz, vittoria ai punti contro la leggenda Andrei Arlovski poi trasformata in No Contest per positività di Harris ad un test USADA. Sta fermo sei mesi, il tempo di tornare nell’ottagono UFC e sbriciolare Spivak in 50 secondi. Una furia. Altro match, stavolta davanti c’è il veterano Oleinik.
Poi quello che non ti aspetti. L’adorata figliastra sparisce. Le telecamere di sicurezza di una stazione di rifornimento la riprendono mentre viene avvicinata da un uomo ubriaco. Poi, semplicemente, non si trova più. Era il 23 ottobre del 2019.
Chi conosce un minimo la geografia degli Stati Uniti sa che sparire negli stati del sud non è come sparire in una metropoli. Ci sono chilometri, chilometri e chilometri di natura in cui poter nascondere qualcuno e sparire. Una natura inospitale, minacciosa, difficile da poter tenere sotto controllo.
Si costituisce una task force FBI. Si interrogano persone, si fanno domande, si controllano le telecamere. Nulla. Viene ritrovata la macchina della ragazza. Il 25 novembre, un mese e due giorni dopo la scomparsa, vengono ritrovati dei resti umani in un bosco. È il corpo di una ragazza che è stata uccisa a colpi di pistola. È lei, Aniah Blanchard Harris. Per Walt Harris è un momento terribile, un incubo ad occhi aperti.
Viene individuato il colpevole, che si dà alla latitanza. Lo U.S. Marshall lo arresta (probabilmente dopo che il tizio aveva fatto resistenza, visto che aveva un occhio gonfio nella foto segnaletica). L’emergenza Covid 19 bloccò il processo, che si è successivamente tenuto il 3 giugno del 2020.
L’accusa chiede la pena capitale. Morte che chiama morte, è la storia di quella terra violenta in cui legge dello Stato e legge degli uomini combaciano probabilmente più di quanto dovrebbero.
Walt Harris giura che per onorare il ricordo dell’amatissima figliastra diventerà un grandissimo fighter e che combatterà al meglio delle sue possibilità.
Dopo una carriera costellata di successi, Alistair Overeem si ritrova nella condizione ingrata di dover arrestare la carica del gigante dell’Alabama. La favola vorrebbe che Harris abbatta il colosso olandese. Ma noi non viviamo nelle favole. E così, dopo un primo round in cui l’americano sembra stare per chiudere la contesa col suo ground and pound pesantissimo, nel secondo emergono lo striking e la maggior esperienza del veterano di mille battaglie Overeem, che abbatte Harris e arricchisce ulteriormente la sua irripetibile carriera.
Nel momento stesso in cui l’arbitro decreta la fine, però, il guerriero olandese si spoglia dell’armatura e si inginocchia di fianco al rivale, deluso da sé stesso per non aver mantenuto la promessa.
Ma che non ha niente da rimproverarsi. È un momento drammatico, ma è anche un momento bellissimo e che lascia spazio alla tenerezza in un mondo, come quello dello sport da combattimento, dove questo sentimento viene visto spesso come una debolezza.
È un’immagine che forse non resterà nella storia. Ma è un’immagine che sicuramente mi porterò dentro.
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