Il dibattito sui compensi dei fighter UFC non accenna a placarsi. Tra Jon Jones, Jorge Masvidal e molti altri, sempre più fighter raccontano di sentirsi “prigionieri”. A questi aggiungiamo la lunga lista di fighter che non riescono a fare delle MMA un lavoro a tempo pieno nonostante combattano ad alti livelli. Nell’ultimo anno sempre più atleti si sono espressi pubblicamente in quanto a loro dire la torta della UFC non viene distribuita equamente. Ma senza un progetto di sindacato all’orizzonte, le parole sembrano destinate a restare parole. Quali possono essere le cause che hanno portato a questa situazione? Una class action potrebbe regalare una nuova prospettiva riguardo al problema. Ad esprimersi con forza è un gruppo di ex fighter che include nomi piuttosto importanti, tra cui Jon Fitch e Brandon Vera.
Stando a questi ex fighter, tra le cause che hanno portato a questa situazione ci sono le tendenze monopolistiche della parent company della UFC, ovvero Zuffa. Nello specifico, la UFC è accusata di aver violato il secondo articolo dello Sherman Act, che rende illegale la monopolizzazione volontaria di un mercato. “Volontaria” è la parola chiave. Secondo la legge americana non si commettono illeciti ottenendo un monopolio solo grazie alla mano invisibile del mercato. Tuttavia, secondo gli accusatori non serve un grande sforzo per trovare esempi di come la UFC abbia acquisito e rinforzato “artificialmente” la propria posizione come leader delle MMA mondiali, abusando poi di quella posizione. Ci arriveremo.
Sotto accusa ci sono le modalità con cui la UFC ha ottenuto la propria posizione per poi abusarne in entrambi i mercati in cui si divide la macroeconomia.
1) Il mercato dei beni e dei servizi: la quota di mercato della UFC nel settore della promozione dei combattimenti professionistici di MMA è tale da essere considerata un monopolio.
2) Il mercato dei fattori di produzione: questa situazione è detta monopsonio (unico compratore). La promotion si può considerare unica compratrice dei servizi offerti dai fighter di élite. In questo modo i fighter sono pagati meno di quanto lo sarebbero in un mercato competitivo.
Abbiamo parlato di quote di mercato: questo perché, se si parla di antitrust, i monopoli e i monopsoni non vanno intesi letteralmente. Naturalmente la UFC non controlla il 100 % dei mercati menzionati, ma la sua posizione è abbastanza dominante da avere un impatto smisurato sui prezzi dei suddetti mercati. Infatti, secondo l’accusa il 90 % dei ricavi relativi alle MMA negli Stati Uniti va alla UFC.
Come ha fatto la UFC ad ottenere una posizione così dominante? In soldoni, sempre seguendo il filo dell’accusa, la UFC avrebbe creato una struttura assai restrittiva per i fighter a fine contratto. Distruggendo di fatto il concetto di free agency (un fighter svincolato che può scegliere l’offerta vantaggiosa dalle varie promotion), la UFC ha inserito clausole come il rinnovo di contratto automatico per i campioni, ma anche altre clausole, con lo scopo di allungare i contratti ben oltre i limiti previsti. Un’altra tattica è quella di punire i fighter “disobbedienti” o ritenuti “ossi duri” nelle negoziazioni, riducendo la loro esposizione (ad esempio relegandoli ai prelims). La terza tattica è forse quella più nota, ovvero l’aggressiva acquisizione e successiva chiusura delle promotion concorrenti, come Pride FC e Strikeforce. In questo modo, i fighter appartenenti a queste promotion si ritrovarono a combattere sotto l’egida Zuffa, di cui abbiamo descritto la struttura contrattuale.
Qui arriviamo al nocciolo della questione. Questa situazione mantiene i salari a un livello troppo basso. Quanto basso, esattamente? Circa il 20% dei ricavi della UFC va ai fighter. Il numero fa impressione, considerata la percentuale dei ricavi che spetta ai giocatori della NBA o della NFL, vicina al 50%. Non parliamo neppure della boxe, dove la percentuale spesso supera il 60%. Il problema è che la UFC ha una storia sindacale tutta da scrivere nonostante molti atleti si siano dichiarati favorevoli – addirittura l’80 % dei fighter secondo un sondaggio condotto dall’autorevolissimo The Athletic. Nelle altre leghe, invece, le dispute vanno avanti da decenni e in alcuni casi hanno portato anche alle serrate (colloquialmente definite “scioperi”, pensiamo alla NBA nel 2011).
Addentriamoci ulteriormente nel nocciolo della questione, tornando allo Sherman Act e alle leggi potenzialmente violate da Dana White e compagnia. La difesa di questi ultimi sostanzialmente è la seguente: non c’è alcun progetto per far sì che i fighter siano sottopagati. La mano invisibile del mercato ha fatto il suo dovere, la UFC è migliore delle altre promotion ed è per questo che domina. Inoltre, i contratti della UFC non sono molto diversi da quelli di altre promotion importanti. E la percentuale dei ricavi che va agli atleti? Secondo la UFC è un dato inutile: quello che conta è che gli stipendi continuano ad aumentare.
Prima di capire dove possa portare questa class action, definiamo il termine: una class action o azione collettiva è un’azione legale intentata da un gruppo di persone per conto di molte altre persone. Pensiamo per esempio alle vittime di disastri naturali. Nel caso in questione, questi fighter agiscono per conto di tutti gli atleti che hanno combattuto in UFC tra il 16 dicembre 2010 e il 30 giugno 2017. Tutti questi fighter partecipano passivamente alla class action a meno che non rinuncino esplicitamente. Lo status di class action è stato confermato da un giudice federale, Richard Boulware, nel dicembre del 2020. Piccola consolazione per la UFC, Boulware ha dato ragione a Zuffa per quanto riguarda la gestione dei diritti di immagine, altro elemento del contendere. Al momento la UFC ha intenzione di fare appello riguardo alla decisione di Boulware.
Questo è un passaggio fondamentale. Senza lo status di class action le speranze per gli ex fighter sarebbero pressoché nulle, come aveva scritto lo stesso giudice nel 2019.
Cosa c’è in ballo? Se la Zuffa dovesse vincere, i fighter non otterrebbero nulla. Ma se i fighter vincessero, la somma che verrebbe loro attribuita sarebbe enorme. Secondo l’accusa, la somma “sottratta” (usiamo le virgolette per neutralità) agli atleti nel periodo di tempo in questione sarebbe tra gli 811 milioni e gli 1,6 miliardi di dollari. Ma nei casi di antitrust i danni vengono triplicati. Parliamo di una somma tra i 2, 4 e i 4, 8 miliardi che potrebbero finire nelle tasche degli atleti. Al momento l’ipotesi appare peregrina. Perché? Come forse avete sentito Endeavor, holding che possiede la UFC, è appena diventata una public company. La UFC è quotata in borsa, per così dire. Per evitare enormi grattacapi economici e di immagine in un momento così delicato è possibile che la UFC decida di patteggiare per una somma che comunque sarebbe molto consistente.
Infine, l’accusa chiede alla corte di pensare a idee alternative alle pratiche della UFC – ad esempio per quanto riguarda la strutturazione dei contratti.
Vi abbiamo aggiornato sugli ultimi sviluppi e sui punti più importanti, anche se la causa è partita addirittura nel 2014 e non possiamo riassumere ogni capitolo. Va detto che grazie a questa causa molti documenti riservati sono stati resi pubblici, il che ha dato la possibilità a fan e addetti ai lavori di dare uno sguardo dietro le quinte della UFC che altrimenti sarebbe rimasto utopico.
Chiudiamo sottolineando ancora una volta l’elemento del contendere: c’è uno schema? Zuffa ha raggiunto la sua posizione dominante solo perché, come dice, la UFC è migliore delle altre promotion, oppure ha artificialmente alterato il mercato a proprio favore per poi abusare della propria posizione monopolistica? Staremo a vedere. Qui il sito migliore per seguire tutti gli aggiornamenti: quello creato dagli ex fighter proprio per questo scopo.
Un grande ringraziamento va a John Nash di Bloodyelbow.com, che ha riassunto le tappe principali della causa fino ad oggi. Potete seguirlo su Twitter a questo link.
In questo video, che ha ispirato questo articolo e di cui è la fonte principale, Nash riassume i punti salienti della contesa.
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