MMA | Photo Credits: Fabio Barbieri Photography, Mattia Galbiati vs Mark Trader [Venkon Fight Night 2 ] -Le MMA italiane sono da sempre preda della più classica sindrome del gambero. Che, per inciso, non cammina all’indietro come da credenza popolare. Leggete un qualsiasi articolo al riguardo, o meglio ancora osservate dei gamberi che non siano già stati sistemati sul vostro barbecue o sul vostro piatto. Il gambero, dunque, va avanti ma in caso di pericolo fa comunque un grosso balzo all’indietro. Ecco, metaforicamente potremmo definire così le MMA italiche.
Tanti, tanti passetti in avanti, con le unghia e con i denti, facendo i conti con un movimento mai seguito davvero in Italia sia dal pubblico pagante che dalla community online, con diversi fighter promettenti ma che non riescono a trovare il giusto percorso di crescita nelle promotion nostrane, trovandosi spesso a fare il passo più lungo della gamba e a pagarne lo scotto ogni qual volta si va a combattere all’estero troppo presto. Eppur, qualcosa si muove. Soprattutto in questo periodo, stiamo assistendo alla nascita di diverse realtà locali interessanti, sia in fatto di team che di atleti, con promotion di spessore nazionale che stanno finalmente tornando alla ribalta come nel caso di Venator che, grazie all’accordo con UFC Fight Pass, sta dando risalto internazionale al proprio roster in maniera progressiva e con un giusto mix di scontri tra giovani e veterani, match con atleti esteri e scouting dei talenti più promettenti ed ancora ad inizio carriera.
Tutto ciò è obiettivamente una gran cosa, ma non ci porta purtroppo fuori dall’annoso quesito del titolo: perché le MMA in Italia non decollano? Premessa doverosa: chi vi scrive ha assistito a numerosi eventi su suolo italiano, dai più piccoli ai più importanti, lavorando anche in alcuni di essi come gestore della comunicazione. A ciò si è poi aggiunta un’acuta osservazione del substrato che compone la macrosfera delle MMA italiane, passando da atleti a coach, da manager a promoter, da arbitri a giudici e passando per i blogger e i più umili degli addetti ai lavori.
Ebbene, sia chiaro che ciò è un’opinione meramente personale, lontana dal poter essere considerata una realtà essendo il sottoscritto un umile osservatore neanche troppo attento, ma se c’è una cosa che mi ha parzialmente aiutato a dare una risposta in tal senso è una parola: personalismi.
Chiaro, ognuno di noi ha un ego più o meno sviluppato, smisurato nel caso di chi vi scrive, ma il problema non essere egocentrici e guardare al Super-Io freudiano come massima aspirazione personale a livello, perdonate il gioco di parole, strettamente personale. Il problema sorge quando questi personalismi inficiano la sfera professionale di tutti i soggetti coinvolti.
Cosa vuol dire? Che spesso diversi coach hanno, indirettamente, tarpato le ali ai propri atleti, impedendogli di crescere nel giusto modo magari ancorandoli e legandoli al proprio team senza concedergli la possibilità di allenarsi con altri atleti di altri team, o addirittura non concedendogli il via libera per un camp all’estero. Così come, e stiamo parlando di esempi generici quindi che nessuno si senta preso in causa, spesso alcuni atleti si sono cullati nel proprio talento, non uscendo mai fuori dalla propria comfort zone e non migliorandosi ampliando il proprio portfolio di skills e abilità, incatenandosi ad una monodimensionalità che, in uno sport come le MMA che vive di un continuo cambiamento stilistico e tecnico anche a cadenza semestrale, è spesso risultata fatale.
A ciò si vanno poi ad aggiungere, talvolta, le scelte scellerate di alcuni management, che in momenti di spicco, su trampolini di lancio comunque di livello, hanno incatenato i propri atleti alle promotion sbagliate, preferendo una soluzione di comodo ma economicamente stabile al posto di una scalata dura, ostica, ma verso l’olimpo di questo sport che corrisponde a quella sigla di tre lettere che tutti conosciamo. Peggio ancora, ci sono stati – e ci sono tuttora – manager che mandano i propri atleti contro avversari che definire di comodo sarebbe un eufemismo: tanti incontri facili, contro atleti esordienti o con record in negativo, nella speranza di una chiamata che poi magari può puntualmente arrivare, con l’unico risultato che, anche quando si arriva in palcoscenici importanti, la caduta è più fragorosa delle polemiche per non aver affrontato match allenanti.
I promoter, infine, sono per assurdo i meno colpevoli al riguardo: va infatti pagato il giusto rispetto a chi ha messo, mette o metterà soldi per eventi che, in Italia, raramente supereranno i 1000-1500 spettatori paganti. Però è quantomeno auspicabile chiedere un certo tipo di standard in un evento, anche solo nell’abbinamento in fatto di match-making, nella gestione della propria comunicazione, nel provare a rendere sempre e comunque vendibile il proprio evento a seconda del proprio target di riferimento, e nel non cadere in equivoci non troppo limpidi.
Una piccola parentesi va spesa anche sul comparto blogger e siti di settore: spesso, in passato, ci sono stati diversi attriti tra alcune delle parti citate sopra e i piccoli media di MMA italiani: un accanimento a volte troppo esagerato, non giustificato anche di fronte a qualche corbelleria che, negli anni, è stata scritta. Bisognerebbe, però, trovare il coraggio e il buongusto di condannare anche, quando si sono palesate, le uscite a vuoto delle categorie già citate sopra e anche, in alcuni casi, dei media nazionali che, in qualche caso, hanno contribuito a generare disinformazione sul mondo delle MMA.
Ciò rende il prodotto MMA italiane da buttare? Assolutamente no, altrimenti non saremmo qui a scriverne e a discuterne, ma semplicemente bisogna prender coscienza di un determinato tipo di problematiche, isolarle ed eradicarle fino al punto da poter finalmente provare a fare uno step in avanti. Meno egocentrismo, meno personalismi, meno campanilismo, più unità di intenti: è utopistico, senza dubbio, aspettarsi che tutti i promoter, tutti i manager, tutti i team e tutti gli atleti italiani uniscano le forze verso un unico polo comune, ma sarebbe quantomeno auspicabile trovarsi di fronte a meno ostracismo ed odio diffuso di fronte ad uno sport che, probabilmente, non diventerà mai mainstream nel nostro paese ma che senza dubbio ha le possibilità per fare un enorme step in avanti di qui ai prossimi anni con le giuste correzioni.
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